Mnamon

Antiche scritture del Mediterraneo

Guida critica alle risorse elettroniche

Latino

- VII-VI secolo a.C. - Età  contemporanea

a cura di: Filippo Battistoni (revisione a cura di Mirko Donninelli)     DOI: 10.25429/sns.it/lettere/mnamon013
Ultimo aggiornamento: 2/2022


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Lapis Niger


La scrittura latina è una scrittura alfabetica attestata a partire dal VII-VI secolo a. C. nel Latium vetus e poi diffusa ovunque si estese il dominio romano. Oltre che per il latino, venne occasionalmente usata anche per altre lingue dell’Italia antica, come l’umbro in alcune delle tabulae Iguvinae e l’osco nella tabula Bantina. L’alfabeto latino deriva attraverso la mediazione etrusca da quello greco e in età classica conta 23 lettere.

La datazione dei più antichi documenti epigrafici che attestino l’alfabeto latino è spesso discussa, al pari della loro classificazione come testimonianze di latino arcaico o piuttosto di altre lingue italiche (il caso esemplare è il Lapis Satricanus). Tra le più antiche iscrizioni occorre ricordare: la coppa di Gabii (fine VII sec.), l’urna di Tita Vendia (fine VII sec.), la fibula prenestina (fine VII sec., di autenticità discussa), il vaso di Dueno (VI sec.), il cippo del foro (VI sec.), la lamina di Lavinio (VI sec.). Queste iscrizioni arcaiche rivelano come non si fosse ancora uniformemente imposta la direzione di scrittura da sinistra verso destra, che caratterizzerà invece le testimonianze successive: ad esempio la fibula prenestina è sinistrorsa, mentre il vaso di Dueno e il cippo del foro sono bustrofedici.

Queste testimonianze mostrano ancora un’unica stilizzazione alfabetica utilizzata in tutti i contesti (sia pubblici sia privati) e particolarmente vicina alle forme greche (il caso esemplare è il segno R, ancora realizzato come Ρ greco). Attorno al IV-III sec. a. C. l’alfabeto latino si avvicina alle forme in uso ancora oggi e sviluppa due filoni grafici distinti: uno posato, geometrico e monumentale, utilizzato per le iscrizioni pubbliche realizzate a scalpello (capitale epigrafica), ma anche per la produzione libraria su papiro e su pergamena, tracciata con il calamo e poi con la penna di volatile (capitale libraria); un altro, invece, di tipo corsivo, molto più rapido e semplificato nel tracciato, destinato alla scrittura d’uso e all’ambito privato, eseguito a sgraffio su materie dure e con lo stilo su tavolette cerate (corsiva antica). A partire dal III secolo d. C., poi, emerge una nuova tipologia alfabetica in cui le lettere non sono più inserite in un bilineo, ma si sviluppano con aste ascendenti e discendenti in un sistema quadrilineare: questa nuova forma minuscola troverà spazio sia nel filone librario sia in quello corsivo, dando origine a nuove tipizzazioni grafiche (onciale, semionciale, corsiva nuova).

Dall’alfabeto latino deriva, attraverso i mutamenti grafici avvenuti nel corso del Medioevo, la maggior parte delle scritture europee e del mondo occidentale moderno (di lingua neo-latina o meno). Con i processi coloniali l’alfabeto latino viene adottato poi anche per alcune lingue dell’Asia, dell’America, dell’Africa e del Pacifico; in questa fase molte lingue che non conoscevano ancora la scrittura ottennero la prima codificazione grafica proprio in alfabeto latino.


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Indice dei contenuti

[A] Storia dell'alfabeto
  1. Origini
  2. Adattamenti ed evoluzioni
  3. Riforme ortografiche
[B] Materiali e Discipline
  1. Materiali
  2. Discipline
Origini

L’alfabeto latino deriva da quello greco euboico, probabilmente attraverso la mediazione degli Etruschi. “L’operazione fonologica dei Latini che hanno attribuito alle lettere greche non utilizzate dagli Etruschi precisi valori fonetici (Δ=d, O=o, Χ=cs) si spiega con l’intervento greco; d’altra parte, però, l’intermediario etrusco è necessario per spiegare il sistema di notazione delle velari” (M. Cristofani, Scrittura e Civiltà 2, 1978, 15). La terza lettera dell’alfabeto latino C, ad esempio, in etrusco aveva il suono di /k/ che è poi passato al latino, ma derivava dal gamma greco (nella sua variante grafica calcidese, simile alla moderna C) che, come noto, aveva il suono /g/. Nell’adattamento latino hanno cambiato suono il koppa divenuto /q/, il digamma che da semivocalico passa a /f/ e la ypsilon, che diventa vocale e semivocale posteriore /u/ /w/; H rimane aspirata come nell’alfabeto greco arcaico preeuclideo. I segni Θ Φ Ψ non furono usati come lettere, ma come sigle numeriche (Θ > C = 100, Φ > M = 1000 [e il segno dimezzato, D, vale la metà = 500], Ψ > L = 50).


Adattamenti ed evoluzioni

L’alfabeto latino conta originariamente 20 lettere (dalla A alla X), alle quali viene aggiunto metà III sec. a. C. il segno G (secondo le fonti ad opera del liberto Spurio Carvilio: Plutarco Questioni romane 54, 277d, Terenziano Scauro GLK VII 15). Con l’adozione di questo segno, si riassesta la modalità di scrittura delle occlusive gutturali: originariamente, infatti, l’uso di K C Q dipendeva dalla vocale seguente e non segnalava differenze tra sorde e sonore: C poteva dunque indicare sia /k/ sia /g/. Al fine di disambiguare, quindi, venne introdotto il segno G (ottenuto da una modifica di C) per indicare l’occlusiva sonora e C venne usato solo per l’occlusiva sorda (ma nella sigla C = Gaius mantenne il valore sonoro originario). Il risultato fu la decadenza di K, che si conservò come grafia fossile solo in poche parole, come Kalendae (abbreviato k o kal). Le ventuno lettere così raggiunte furono sempre sentite come l’alfabeto nazionale (cf. Cicerone de natura deorum II 93). In seguito (inizio I sec. a. C.), per traslitterare correttamente il greco, accanto all’uso di PH CH TH per rendere le consonanti aspirate Φ Χ Θ, vennero aggiunti i segni Z e Y, per indicare i suoni prima traslitterati rispettivamente con S-/-SS- e V. Il segno Z, in realtà, esisteva già nell’alfabeto latino (Velio Longo GLK VII 51) e occupava il posto poi preso da G (come negli alfabeti greci); tale segno, però, era usato per indicare la sibilante sonora intervocalica (/z/): con la rotacizzazione di questo suono nel IV sec. a. C., il segno era caduto in disuso.

Per quanto riguarda la scrittura geminata delle consonanti, assente nelle epigrafi più antiche, la tradizione vuole che sia stato il poeta Q. Ennio (III-II sec.) a introdurla sulla base del modello greco (Festo p. 374, 7-9 Lindsay).

Sull’origine e sulla storia dell’alfabeto latino l’erudito M. Terenzio Varrone (I sec. a. C.) scrisse il trattato de antiquitate litterarum (frr. 1-2 Funaioli), oggi perduto ma probabilmente alla base di molte notizie che si ritrovano nei grammatici di età imperiale.


Riforme ortografiche

L’alfabeto latino rimase sostanzialmente invariato fino alla fine dell’età antica e lungo il Medioevo fino all’adozione delle lettere ramiste J e U (XVI sec.). In effetti tutte le proposte di riforme ortografiche erudite, sebbene teoricamente condivisibili, si rivelarono fallimentari. Nel II sec. a. C., il drammaturgo e grammatico L. Accio suggerì l’uso “alla greca” di G davanti a G e C per indicare la nasale velare e la geminazione delle vocali per indicare la quantità, come si usava in osco: il latino infatti usava sporadicamente l’apex [Á = ā] e distingueva stabilmente solo ĭ da ī, quest’ultima rappresentata dal digramma EI o da una I più lunga (frr. 24-25 Funaioli); la proposta fu criticata dal poeta satirico Lucilio (352-355 M.). Verrio Flacco, precettore dei nipoti di Augusto, non riuscì a imporre una mezza M per segnare la nasale finale di parola davanti a vocale (Velio Longo GLK VII 80). Le tre nuove lettere introdotte dall’imperatore Claudio non sopravvissero al suo regno (Tacito Annales XI 14, Svetonio Claudius 41, 8). Qualcosa di simile tentò anche il re dei Franchi Chilperico I nel VI sec. d. C. aggiungendo quattro segni per alcuni suoni caratteristici della fonetica germanica (Gregorio di Tours V 44): si tratta del primo tentativo ufficiale di adeguare l’alfabeto latino alle nuove lingue dell’Europa medievale.


Materiali

I materiali su cui si scriveva in latino sono numerosi. Tra i meno deperibili si ricordano la ceramica e i metalli (per impressione sulla ceramica prima della cottura o sulle monete, ovvero a sgraffio per la ceramica, prima o dopo la cottura) e la pietra (incisa con scalpello e poi spesso rubricata). Infine vanno considerati i mosaici.

Tra i materiali maggiormente deperibili di cui però abbiamo una buona testimonianza vi sono le tavole lignee, sia cerate dove la scritta veniva incisa, sia al naturale o “dealbatae” = pitturate di bianco per maggior contrasto, con pennello ed inchiostro. In particolare si ricordino quelle di Pompei ed Ercolano, quelle transilvane e quelle di Vindolanda. Sono simili alle tavole come supporto gli stucchi, ad esempio parietali. Il lino, diffuso in Etruria, pare aver avuto meno fortuna a Roma ed essere stato utilizzato in particolar modo per quelle discipline in cui i Romani erano maggiormente debitori agli Etruschi (ambito religioso: augurale) e comunque non oltre il terzo secolo a.C. A partire da ca. il primo secolo a.C. ci rimangono documenti scritti su papiro, mentre la pergamena compare più tardi (la più antica potrebbe essere un frammento del de bellis Macedonicis datato ca. al 100 d.C., CLA II2 207). Papiro e pergamena potevano essere presentati o in forma di rotolo o di codice, quest’ultimo composto alternativamente di papiro o di pergamena.


Discipline

Dalla breve panoramica, molto semplificata, delle principali forme della scrittura latina si sono comunque potute osservare delle differenze, cronologiche e legate ai modi ed ai materiali con cui si scriveva. Una « histoire de l’écriture d’après tous les documents graphiques, sur quelque matière que ce soit » (L. Robert) non è stata ancora scritta e permane, sebbene si cerchi di far sì che ciò non costituisca un vincolo eccessivo, una distinzione tra discipline.

La scrittura latina, la sua storia, evoluzione, valore/funzione, è oggetto di studio della paleografia latina. Con scrittura si intende ogni testimonianza scritta, sia essa un’inscrizione su pietra, su metallo, papiro o codice o altro ancora. I primi trattati di paleografia (quello del benedettino J. Mabillon e quello del marchese S. Maffei) si basavano in larga parte su materiale epigrafico e contribuivano allo sviluppo di un atteggiamento scientificamente critico nei confronti dei pezzi. La paleografia tuttavia si è poi storicamente concentrata in particolar modo su quei documenti iscritti che offrono maggior spunto per lo studio della scrittura, quelli cioè in cui sia il materiale su cui si scrive, sia quello con cui si scrive permettono una maggiore spontaneità allo scrivente, rispetto all’inscrizione su pietra ad esempio. A partire dalla metà del secolo scorso si è invece riacuito l’interesse dei paleografi per le iscrizioni, in particolare sulla scia della “Paleographie romaine” (Madrid 1952) di J. Mallon. Questi sottolineava l’interesse del paleografo anche per le epigrafi, ponendo l’attenzione sulla figura dell’ordinator, di colui cioè che scriveva ad inchiostro sulla pietra il testo che sarebbe poi dovuto essere inciso.

Discipline indipendenti dalla paleografia ma strettamente correlate dal momento che si occupano di documenti iscritti ed in parte di scrittura (intendendo con ciò lo studio della scrittura), sono, per il mondo antico, l’epigrafia e la papirologia.

L’epigrafia latina si occupa, grossomodo, di tutte le iscrizioni (= epigrafi) eseguite per incisione/graffito, ad eccezione degli ostraka, e di quelle a stampo, mentre la papirologia ha come oggetto di studio gli ostraka (pochissimi i latini) e i papiri scritti. Questa divisione sommaria è solo indicativa e la papirologia latina è di fatto accorpata alla paleografia, dal momento che al contrario della papirologia greca ha una base documentaria molto inferiore.

Per i periodi più antichi (quando cioè le testimonianze scrittorie sono per lo più su supporti duri: pietra etc., all'incirca fino al V secolo d.C.), di fatto epigrafia e paleografia vengono ad avere lo stesso oggetto di studio, con prospettive differenti: la prima si occupa del documento nella sua interezza (aspetto esteriore, contenuto, significato storico); la seconda si concentra sulla scrittura. Naturalmente anche l’epigrafista deve tener conto di questo aspetto, specialmente dal momento che i documenti iscritti antichi vengono generalmente pubblicati per la prima volta da epigrafisti/papirologi e non da paleografi, ma esso rimane secondario. Avendo metodi e prospettive differenti è indispensabile che le due discipline dialoghino tra di loro, anche se a volte ciò risulta non semplice (istruttive ed interessanti sono le risposte date da alcuni noti epigrafisti e paleografi ad un questionario sul rapporto tra epigrafia e paleografia, pubblicate in Scrittura e Civiltà 5, 1981, tra cui si vedano in special modo quelle di S. Panciera e H. Solin).