Nel mondo antico, prima dell'avvento della carta, i supporti per la scrittura erano estremamente vari. Alcuni di essi erano preparati in maniera molto elaborata e risultavano perciò assai costosi, altri invece erano supporti di fortuna recuperati all'insorgere della necessità di scrivere. A seconda della zona geografica, del periodo storico, dello scopo del testo scritto e di altri fattori, il supporto poteva dunque variare notevolmente.
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Era il supporto più diffuso, prodotto in Egitto e poi esportato in tutto il Mediterraneo. Il suo impiego è attestato fin da tempi remotissimi (fine IV mill. a.C.) e fu propagato efficacemente dall'espansione dell'Impero romano. Solo in Età bizantina conosce una prima flessione a causa della crisi economica, della caduta dell'Impero d'Occidente (476 d. C.), della conquista araba dell'Egitto (641 d. C.) e della diffusione di altri supporti (pergamena, carta). Tuttavia, nel VII e VIII secolo d. C. il papiro arriva ancora regolarmente in Gallia e nel IX sec. è utilizzato a Ravenna nell'Esarcato bizantino. Nel X sec. lo usa ancora la Curia romana (il documento più recente è una bolla di Papa Vittore del 1057); in questi ultimi secoli il papiro proviene però dalla Sicilia (in particolare da Siracusa) più che dall'Egitto.
Il fusto ha forma triangolare è può raggiungere i 3-4 m di altezza; esso cresceva nella Valle del Nilo, nell'Africa Centrale, in Mesopotamia, nella Valle del Giordano e in Sicilia.
Il processo di produzione dei fogli di papiro è descritta da Plinio (nat. hist. XIII 74-81):
"praeparatur ex eo charta diuiso acu in praetenues sed quam latissimas philyras; principatus medio, atque inde scissurae ordine. [...] 77. texitus omnis madente tabula Nilii aqua: turbidus liquor uim glutinis praebet. in rectum primo supina tabulae schida adlinitur. longitudine papyri quae potuit esse resegminibus utrimque amputatis, trauersa postea crates peragit. premitur ergo prelis, et siccantur sole plagulae atque inter se iunguntur, proximarum semper bonitatis deminutione ad deterrimas. numquam plures scapo quam uicenae. [...] 81. scabritia leuigatur dente conchaue".
Tuttavia la descrizione pliniana è approssimativa ed inesatta: non è l'acqua del Nilo a fare da collante, ma i carboidrati della polpa del vegetale medesimo. I passi per la fabbricazione dei fogli di papiro (kóllÄ“ma) sono i seguenti:
1. si recide il fusto;
2. lo si taglia in pezzi, si toglie la corteccia e si mette a nudo la polpa piena di fibre;
3. la polpa viene tagliata in strisce;
4. si compone una superficie di strisce con una leggera sovrapposizione;
5. si compone un secondo strato perpendicolare al primo;
6. si schiaccia il foglio con un rullo o una pressa;
7. si rifila il foglio tagliando le sporgenze e squadrandolo;
In questo modo una facciata presentava le fibre verticali e l’altra le fibre orizzontali: su questa sola si scriveva originariamente (rotoli scritti transuersa charta sono riservati ai soli testi documentari della Cancelleria reale di Età tolemaica). I fogli così ottenuti avevano dimensioni diverse: un massimo di 40-45 cm (Età faraonica) e una media di 30 cm (Età greco-romana). Anche la larghezza era assai varia: 35-40 cm (Età faraonica), 18 cm (Età greco-romana).
I singoli fogli così ottenuti venivano poi incollati a fare il rotolo (chártÄ“s, bìblos o tómos); essi erano incollati in modo che le fibre fossero disposte in modo omogeneo (da un lato tutte verticali, dall'altro tutte orizzontali). Solo il primo foglio (prÅtókollon) veniva disposto con le fibre perpendicolari al resto del rotolo: esso non era scritto, ma fungeva da impugnatura per srotolare il rotolo e da protezione (la fibra orizzontale infatti resiste meglio). Un rotolo di papiro standard era composto da una ventina di fogli e raggiungeva la lunghezza totale di circa 3,50 m; tuttavia abbiamo menzione di rotoli composti da 50, 60 e anche 160 fogli, per una lunghezza di 28-29 m ca. (si trattava di veri e propri stock di materiale da cui si tagliavano i pezzi all’occorrenza).
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Il testo scritto che avesse una funzione pubblica (di tipo funerario, monumentale, storico, magico, perfino pubblicitario) su supporto in pietra era estremamente diffuso in tutto il bacino del Mediterraneo. Se l'epigrafia greca e quella latina sono le più conosciute – le epigrafi romane sono decine di migliaia, e si conta che solo il 10% di esse ci sia pervenuto – anche le scritture delle antiche civiltà del Mediterraneo meridionale ed orientale produssero abbondantissimo materiale epigrafico. Il materiale era di diverso tipo a seconda della reperibilità: marmi, graniti, arenarie, calcare, porfido, o della semplice pietra locale. Non difficilmente il materiale rispecchiava lo status sociale od economico del committente dell'epigrafe, in particolare per pietre di colore, durezza o rarità particolari. La scrittura su pietra, per essere di buona qualità, richiedeva una certa perizia tecnica e dell'abilità. La superficie veniva preparata con cura, come per i migliori testi su pergamena o papiro: operazioni di lisciatura erano seguite in alcuni casi da un disegno preliminare del testo scritto e dall'esecuzione di linee guida, etc. Il testo inciso sulla pietra (in alcuni casi solo graffito), veniva in alcuni casi dipinto (ad es. rubricatura in rosso per il mondo romano, ma in alcuni casi una vera e propria pittura naturalistica per i segni geroglifici egiziani, oppure uso di colori simbolici o ritenuti magici) per evidenziarne il contenuto rispetto alla superficie della pietra. In alcuni casi la scrittura su pietra era ottenuta attraverso l'intarsio con materiali litici diversi (policromia e polimateria sono costanti nell'arte del Vicino Oriente) o l'applicazione attraverso perni di lettere metalliche, in alcuni casi dorate (ad es. per le iscrizioni monumentali romane imperiali).
Essa era generalmente di pecora, capra o vitello. Veniva ovviamente lavorata, trasformandola ora in cuoio ora in pergamena.
La lavorazione del cuoio è descritta ancora da Plinio (nat. hist. XIII 113), da Teofrasto e da Dioscoride. Tutti e tre gli autori concordano sulla procedura:
1. Rimozione di pelo o lana;
2. rimozione dei resti di carne o di grasso ancora attaccati. La pelle viene messa a bagno nella calce o nell’urina (entrambe con proprietà abrasive);
3. si lava e si concia con l’utilizzo di tannino (estratto vegetale), che essendo un ottimo fissatore, impedisce la putrefazione, bloccando la decomposizione, pur mantenendo morbida la pelle.
Il cuoio si presenta liscio su una facciata (quella col pelo), mentre l'altra facciata, spugnosa e filamentosa, non consente la scrittura.
L'uso del cuoio per la scrittura è testimoniato in Egitto nella VI dinastia (2300-2200 a.C.), al di fuori dell'Egitto l'uso era frequente nel Vicino Oriente (Ebrei), in Asia Minore, sull'Altpiano Iranico (Medi, Persiani), in Grecia (cfr. Erodoto hist. V).
Il sistema di produzione è conosciuto da alcuni ricettari egiziani in copto e da altri in latino di VIII e IX sec.:
1.-2. come il cuoio;
3. la pelle viene tesa su un telaio di legno e fatta essiccare; con una lama si raschia su entrambi i lati per renderla il più sottile possibile;
4. si leviga con la pomice;
5. viene sbiancata con del gesso o addirittura tinta con della porpora.
Il supporto permette la scrittura su entrambi i lati. Secondo Plinio la pergamena nasce a Pergamo, sotto il regno di Eumene II (221-160 a.C.), come risposta al divieto di esportazione del papiro egiziano, che il sovrano tolemaico aveva disposto onde boicottare l'idea di una grande biblioteca concorrenziale a quella di Alessandria d'Egitto. La notizia è tuttavia infondata (a prescindere dal suicidio economico egiziano), poiché la pergamena era già in uso prima di Eumene II. La prima pergamena risale infatti al 195 a. C. e proviene da Dura Europos (Siria): essa è tuttavia di eccellente fabbricazione, il che presuppone una certa pratica che alza la datazione dell'invenzione al III sec. a. C. ca. Comunque ai pergameni resta il merito di aver prodotto e diffuso ampliamente il nuovo mezzo scrittorio, adottato poi con interesse dai Romani. I Greci la chiamavano semplicemente diphthéra e solo in Età bizantina venne in uso il termine pergamÄ“nón.
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Esse sono di vario tipo e materiale e ne possediamo migliaia in varie lingue (sumero, accadico, ittita, persiano, lineare A e B, egiziano, greco).
Erano modellate con argilla bagnata a formare una superficie piatta quadrata o rettangolare di dimensioni assai varie (da 2 x 2 a 30 x 30 cm di lato; da <1 a 2 cm di spessore). Per scrivere era ovviamente necessario incidere la superficie ancora fresca della tavoletta con una punta in metallo o in osso (stilo); la tavoletta veniva poi fatta asciugare al sole o, se di grande importanza, cotta in forno ed archiviata; in alcuni casi la cottura è accidentalmente dovuta a incendi.
Si usavano anche tavolette di pietra, realizzate in lastre di calcare squadrate, spianate, levigate e smussate sugli angoli, su cui si scriveva ad inchiostro. Ce ne sono rimaste di Età faraonica (ieratico, demotico) e fino all'Età romana. Rarissimi i testi in greco che non siano delle vere e proprie epigrafi (testi pubblici su supporto non mobili).
Molto numerose, per contro, le tavolette di legno: assicelle di forma quadrata o rettangolare, di dimensioni diverse (da pochi cm a mezzo metro, di spessore dai 2-3 mm all’1,5 cm) e di diverso tipo (stuccate, grezze o cerate). Gli Egiziani scrivevano direttamente sulla superficie lignea con inchiostro, mentre non fecero uso di tavolette cerate. La tavoletta cerata era realizzata da un'assicella con bordo laterale e parte centrale incavata, in cui era colata della cera scurita con del nerofumo (più raramente con cinabro o ocra); una volta indurita la cera, il testo vi veniva inciso con uno stilo metallico, in osso o avorio. Nel Vicino Oriente compaiono nel II millennio a. C. (relitto di Ulu Burun, XIV sec.). La Grecia le conobbe per contatto con l'Asia Minore ed esse sono già citate nell'Iliade (i famosi sÄ“mata lygra en pìnaki ptyktÅ di Bellerofonte). Per quanto riguarda i Romani, Livio I 24 cita l'antico trattato della città con Alba (tabula ceraue), mentre Dionigi di Alicarnasso descrive le XII tavole (V sec. a. C.) col termine di déltoi. Le tavolette cerate rimasero in uso per diversi secoli, addirittura fino al XIX secolo in Francia (listino dei prezzi al mercato).
I recipienti di ceramica, specialmente nel mondo etrusco e greco, recano spesso iscrizioni di diverso tipo, ma comunque di carattere diverso dagli ostraka e dalle etichette di giara. I primi infatti recano la scrittura solo dopo che il recipiente è stato rotto, e quindi non vi è alcuna relazione fra testo e supporto. Le seconde sono più propriamente delle iscrizioni relative al contenuto del recipiente ceramico, e vengono apposte dopo la cottura dell'argilla, a riempimento avvenuto. Qui si tratta di iscrizioni dipinte sul vaso prima della cottura, recanti la firma dell'autore, una dedica, la legenda delle scene rappresentate, etc. Non è raro che nella impostazione decorativa di un vaso si lasciasse uno spazio libero per l'apposizione di testi.
Sono frammenti di vasi di ceramica utilizzati, dopo la loro rottura, come supporto scrittorio (ad incisione o inchiostro): essi sono frequentissimi, perché la ceramica era il rifiuto più comune del mondo antico e le discariche, ma anche le vie e le piazze delle antiche città, abbondavano di cumuli di vasellame frantumato. In Egitto i più antichi sono datati al III millennio a. C. e fino al 1000 d. C., in Oriente le testimonianze più antiche risalgono al VI secolo a. C. e fino all'Età bizantina e allo stesso periodo (VI sec.) risalgono i primi reperti greci (introduzione dell'ostracismo).
Del tutto simili agli ostraka, sono schegge piuttoste piatte di pietra calcarea: molto frequenti in Egitto dall'Antico Regno fino all'Età araba inclusa, pochi invece i testi greci e nessuno in latino.
Si tratta di fogli di metallo molto sottili, su cui la scrittura veniva solo incisa. Si usavano metalli molto malleabili, sia preziosi (oro, argento) sia meno nobili (bronzo, rame e soprattutto piombo). L'uso delle lamine in Mesopotamia è noto fin dal III millennio a . C., in Egitto al II millennio: in questa fase antica sono quasi sempre in oro o argento. Per i testi greci, le lamine più antiche sono state ritrovate in Crimea e risalgono al VI sec. a.C., mentre al V e IV secolo appartengono alcune lettere rinvenute in Spagna e ad Atene. Nei secoli successivi l'uso delle lamine si riduce a testi magici o religiosi (defixiones, lamine orfiche). Nel mondo romano le attestazioni sono piuttosto scarse: oltre a lastre di bronzo pubbliche (epigrafi), le lamine in bronzo erano usate tipicamente per i diplomi militari (congedo ed eventualmente concessione della cittadinanza romana) in latino; ne sono stati rinvenuti diversi in Egitto, Dacia e altre province imperiali.
Sebbene Plinio accenni a plumbea uolumina, l'unico rotolo di metallo iscritto conservatoci è il cosidetto Rotolo di rame, scritto in ebraico e risalente al I secolo d. C. Rinvenuto presso Qumran, esso riporta una serie di tesori e la loro ubicazione geografica: l’interpretazione comune è che si tratti della distribuzione della decima del Tempio di Gerusalemme dopo la distruzione ad opera di Tito (70 d. C.).
Tito Livio (IV) menziona dei libri lintei conservati nel Tempio di Giunone Moneta e recanti gli annali dei primi anni della Repubblica, nonché le prime liste dei magistrati; anche nell'Historia Augusta si menzionano dei libri lintei da depositare nella Biblioteca di Traiano su cui Aureliano (270-75) volle fossero narrate le sue imprese militari. Dall'Egitto proviene il noto Liber Linteus Zagabriensis, un rotolo di lino di 3,5 m di lunghezza con una iscrizione etrusca del I secolo d.C. Esso è l'unico libro linteo conservatoci in originale; tuttavia le rappresentazioni della scultura funeraria etrusca ci mostrano come essi non fossero arrotolati, ma ripiegati su loro stessi a fisarmonica.
Sempre dall'Egitto provengono numerossimi frammenti di stoffa iscritta sia di Età faraonica sia di Età greco-romana, ma per essi è improprio parlare di veri e propri 'libri'.
Scapole, costole e mandibole di bovini, ovini o dromedari – essendo di grandi dimensioni e piuttosto piatte – erano i supporti ossei più utilizzati. I testi che vi venivano iscritti erano di poca o nessuna importanza; le ossa umane erano in qualche caso usate per la stesura di testi magici.
L'avorio è utilizzato, sia in Mesopotamia sia nel mondo greco-romano, come supporto per la cera nelle tavolette, organizzate spesso in dittici. Questi reperti, data la preziosità del materiale, sono però molto rari ed erano ad uso quasi esclusivo dei dignitari della Corte imperiale e dell'alto clero.
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La civiltà egizia in particolare, ma in misura diversa tutte le civiltà del mondo antico, utilizzavano la scrittura praticamente su ogni oggetto della vita quotidiana. Il testo scritto reca ora una formula magica, ora il nome di un proprietario, una frase augurale, della pubblicità, etc. In questo senso, ogni contesto si prestava ad essere supporto per iscrizioni, dall'astuccio per il calamo alla statuina funeraria, dall'amuleto in faience al vaso in alabastro, dal sarcofago di legno al bronzetto decorativo, dalla lampada ad olio all'intonaco del muro di una bottega, dalle armi ai mobili, etc. Sono stati elencati in precedenza i materiali creati appositamente per fungere da supporto alla scrittura (pergamena, papiro, tavolette) o il cui utilizzo fosse, ad un certo punto, esclusivamente quello di recare un testo (ostraka, lamine di calcare), cioè la cui vocazione fosse, prevalentemente, veicolare un testo scritto, ponendo l'accento sul testo più che sul suo supporto.