Mnamon

Antiche scritture del Mediterraneo

Guida critica alle risorse elettroniche

Umbro

a cura di: Alessia Ventriglia


  • Presentazione
  • Le scritture

PREMESSA

Linguisticamente, si è soliti definire l’umbro come una lingua di tipo indoeuropeo che, nello specifico, appartiene a quel gruppo linguistico comunemente definito ‘italico’ per il suo affermarsi, principalmente, in Italia. Tuttavia, definire esattamente cosa sia effettivamente la lingua umbra presenta dei problemi connessi, in primo luogo, con la definizione di ‘italico’ ed, in secondo luogo, con la quantità e la qualità di attestazioni che ci sono pervenute. Infatti, riguardo al concetto di ‘italico’, va precisato che tale termine nasce a fine ‘800 all’interno della scuola tedesca in una prospettiva genealogica che induce i suoi seguaci a considerarlo come un ramo dell’indoeuropeo. Sulla base di questa impostazione, molti studiosi, per tentare di classificare tipologicamente le varie differenze o convergenze fra le lingue indoeuropee della penisola italica, hanno ipotizzato che tale “italico” originario si sia diviso in ulteriori due rami minori a cui hanno dato i nomi di:

  1. ‘italico occidentale’, al cui interno vanno annoverati il latino, il falisco ed il venetico;
  2. ‘italico orientale’, comunemente indicato anche come ‘osco-umbro’, al cui interno vanno annoverati, appunto, l’umbro, l’osco, il sabino, il sud-piceno ed altre parlate cosiddette minori.

Tale schematizzazione, però, soprattutto tra gli studiosi italiani, non ha ottenuto un enorme successo anche in considerazione del fatto che, eccettuati il caso del latino per l’‘italico occidentale’ e dell’osco per l’‘italico orientale’, la documentazione (si veda, nello specifico, proprio il caso dell’umbro il cui corpus ammonta ad un unico testo estremamente lungo a cui si aggiungono qualche decina di iscrizioni di massimo tre righe) non sempre è così ampia da poter consentire di sostenere rigorose ipotesi attributive. Pertanto, al concetto di ‘italico’ quale ramo dell’indoeuropeo, si è opposta la scuola italiana rappresentata da Devoto e da Pisani i quali hanno, invece, preferito intendere per ‘italico’ ciò che si è formato all’interno della penisola e che coincide, in buona sostanza, con il sabellico (altrimenti detto ‘oscoumbro’ per le affinità linguistiche che sembrano legare tra loro le lingue minori dette sabelliche, quali il peligno, il marrucino etc, alle due lingue principali che lo compongono, ovvero, l’osco e l’umbro). Siamo, dunque, dinanzi ad una concezione di ‘italico stricto sensu’ da cui consegue che eventuali affinità con altre lingue della penisola, quali ad esempio il latino, non risalgono ad un’ipotetica parentela originaria, ma sono piuttosto il frutto di contatti successivi. Sulla stessa linea, ma con ulteriori precisazioni, si colloca anche D. Silvestri nel momento in cui lo studioso osserva che il termine ‘italico’ “è, a ben vedere, un concetto più politico (guerra sociale) che linguistico, ma è proprio l’evidenza linguistica che consiglia di riassumere, faute de mieux, sotto questa documentazione unica, l’osco, l’umbro, il sudpiceno (quest’ultimo più affine all’umbro) ed alcune tradizioni minori, impropriamente definite ‘dialetti’ nella prassi manualistica, inquadrabili nei territori dei Peligni, dei Vestini, dei Marrucini, dei Marsi, dei Volsci e, forse, degli Equi e per le quali si potrebbe complessivamente parlare di ‘area linguistica medio-italica’”. Tali definizioni non devono, però, indurre a credere che sia del tutto inesatto parlare di ‘italico comune’ in quanto, come fa notare sempre D. Silvestri, al di là di questo ‘italico stricto sensu’, deve essere sicuramente esistito un ‘italico comune’ che potrebbe intendersi non come una lingua preistorica in larga misura ricostruibile, bensì come un insieme di fatti linguistici predocumentari caratterizzati da un indubbio livello di coesione, in estrema analisi frutto di convergenze preistoriche e protostoriche di cui è testimone il fatto che in esso si trovano alcune leggi fonetiche che non sono tuttavia esclusive dell’italico stricto sensu, ma che coinvolgono anche la tradizione latino-falisca secondo una cronologia indubbiamente alta.

DEFINIZIONE DI UMBRO

Sulla base di quanto appena detto e soprattutto sulla base della definizione di ‘italico stricto sensu’, possiamo certamente dire che per umbro, sebbene tale lingua sia, nella dicitura comune, spesso legata all’osco (si pensi all’ormai datato termine di ‘oscoumbro’, quale sinonimo di ‘italico stricto sensu’ diverso dal latino che, però, è oggi poco usata sia per la sua inadeguatezza nell’esprimere fenomeni più complessi che per la sua improprietà concettuale dal momento che potrebbe ingenerare l’equivoco che le due lingue, osco ed umbro, siano quasi equivalenti), si intende, oltre che una variante dell’italico, principalmente la lingua riflessa nelle tavole iguvine, ovvero in un documento che consta di circa 4500 parole, e, secondariamente, quella di poche altre località da cui provengono le cosiddette iscrizioni umbre minori. In sostanza, grazie al ritrovamento di altre iscrizioni (le iscrizioni umbre minori) in un’area, per così dire, umbra esprimenti la medesima lingua che si ritrova nelle suddette tavole da Gubbio, si può ben dire che l’umbro fosse la lingua parlata da una comunità ben precisa che, in antico, abitava l’Umbria antica, ovvero quel territorio che si estendeva sia ad est che ad ovest del Tevere arrivando fino alla Sabina (corrispondente all’incirca alle attuali province di Rieti e Viterbo) esclusa. Infine, in merito al rapporto tra umbro ed osco, va precisato che, nonostante le similitudini che hanno favorito la nascita del termine oscoumbro, l’osco e l’umbro non sono riconducibili a varietà diatopiche (geografiche) di una stessa lingua. La conferma di ciò la si può ritrovare sia nella dimensione monocentrica dell’umbro (a cui si oppone la dimensione policentrica dell’osco), che nella sviluppata tendenza all’innovazione fonetica e morfologica a cui, per opposizione, corrisponde una certa conservatività semantica se si paragona questa lingua all’osco in cui, invece, si nota una forte conservazione fonetica, ma una notevole innovazione semantica.

CARATTERI FONETICI E MORFOLOGICI DELL’UMBRO

In quanto lingua italica l’umbro presenta:

  • un sistema vocalico, presumibilmente, a 7 elementi in cui sembra predominare la valenza timbrica, espressa soprattutto nella correlazione di apertura, su quella quantitativa (espressa soprattutto nella correlazione fra vocali lunghe e brevi);
  • una dominanza timbrica di i ed u rispetto ad [e] ed [o];
  • un’oscillazione tra a ed o condizionata dall’accento;
  • le sonore b, g e d, ma non ha le aspirate φ = phi, χ = chi e θ = theta;
  • fenomeni di sincopi legati alle posizioni dell’accento secondo due distinte fenomenologie (di cui la prima prevede accento sulla penultima ed apocope nella sillaba finale, mentre la seconda, legata all’accento protosillabico, concerne esclusivamente le vocali di sillabe mediane);
  • la desinenza in –om dell’accusativo singolare nei temi consonantici (secondo il modello dei temi in -o);
  • la conservazione delle desinenze -ōs nel nominativo plurale dei temi in –o e di –ās in quella dei temi in –a;
  • l’uscita in –r nelle forme passive del verbo;
  • la presenza della desinenza secondaria –ns nella terza persona plurale della forma attiva;
  • una tendenza alla palatalizzazione di u fino all’esito i;
  • la velarizzazione delle vocali lunghe finali in sillaba aperta;
  • una tendenza all’assimilazione del gruppo –nd- > -nn-;
  • il passaggio da –tl- a -kl- (–tl- > -kl-) all’interno di parola;
  • il passaggio del dittongo –ew- ad –ow- (-ew- > -ow-);
  • la vocalizzazione delle antiche sonanti ed , rispettivamente in or ed ol ( ṛ > or; ḷ > ol)
  • il passaggio dalle labiovelari indoeuropee (kw) a labiali (p)
  • la tripartizione del genere in maschile, femminile e neutro con due numeri (singolare e plurale);

Invece, tipici ed esclusivi dell’umbro sono:

  • la tendenza ad essere una lingua alquanto innovatrice (a differenza dell’osco che appare più conservatore);
  • l’assenza dell’uso delle doppie;
  • la tendenza ad impiegare la h per esprimere la vocale lunga;
  • la tendenza alla perdita delle consonanti finali, in particolare di m e d, delle uscite dei casi;
  • il livellamento sui temi in –u del dativo plurale dei temi consonantici;
  • la palatalizzazione di k in š [ʃ];
  • il passaggio di l a v (l > v);
  • il passaggio da d a ř (d > ř);
  • la presenza della monottongazione (a differenza dell’osco);
  • la rarissima presenza dell’epentesi vocalica o, meglio, dell’anaptissi (a differenza dell’osco);
  • la presenza, almeno stando all’analisi della grafia, di una complessiva dominanza timbrica di i ed u;
  • una tendenza alla palatalizzazione per effetto di –j- seguente per cui k e g seguite da e, i oppure j diventano ç oppure j (k e g + e, i, j > ç / j);
  • la presenza del rotacismo per la s intervocalica, per cui V+s+V > V+r+V, sia all’interno che alla fine della parola;
  • la trasformazione di d intervocalica in ř oppure rs (V+d+V > V+ ř+V oppure V+rs+V);
  • la trasformazione di *-bh- e *-dh- indoeuropee in –f- (*-bh / *-dh > f) e di *-gh- indoeuropea in –b (*-gh > -b) sia all’interno che all’inizio di parola;
  • la trasformazione in -f delle antiche desinenze del nominativo singolare dei temi in –n ed –r (*-ns / *-rs- > -rr > -f);
  • la presenza dell’assimilazione di mb in m (mb > m);
  • la tendenza nei temi in –a al conguaglio formale delle uscite del nominativo e dell’accusativo sia nel singolare che nel plurale;
  • la tendenza ad ampliare il pronome personale (i-; e-; eo-/ eā-), corrispondente al latino is, ea, id, con suffissi quali -sm-, -s-;
  • la tendenza ad utilizzare, sempre per il pronome personale (i-; e-; eo-/ eā-), alcune forme ampliate in –hu, -ont, -unt (es. eriront, ererunt) per esprimere l’identità e a tematizzare in –e il maschile ed il neutro (laddove l’osco tende a tematizzare in –i / í) in concorrenza con la tematizzazione in –o (o in –a per il femminile);
  • la presenza, sempre nel pronome personale, del tema ek(s)o rispetto al latino hic e della desinenza –om dell’accusativo singolare (es. tiom)
  • la desinenza in –es /-er del genitivo singolare dei temi in –o ed in consonante formatasi per analogia con dei temi in –i della terza declinazione;
  • la tendenza a privilegiare le posposizioni;
  • la mancanza, tra le possibili forme di pefetto, di quella in –tt- (che, invece, è presente nell’osco) a cui si oppone la presenza, pressoché esclusiva dell’umbro, della forma di perfetto in –nki con fenomeno di palatalizzazione (-nki > -nçi);
  • la precoce e profonda tendenza (a differenza dell’osco) ad alterare il sistema dei casi nel suo aspetto morfologico a seguito di sincopi e di indebolimenti della sillaba finale e di omofonie fra le varie uscite dei casi con la conseguente tendenza al mutamento tipologico che portano l’umbro verso un’agglutinazione incipiente testimoniata anche dal frequente e diffuso uso delle posposizioni;
  • la presenza della diatesi attiva e passiva;
  • l’utilizzo di et come congiunzione laddove l’osco ha íním;
  • la tendenza ad ubicare il patronimico immediatamente prima del gentilizio.

 



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