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PREMESSA
È certo che fin dall’antichità il termine osco ha sempre rappresentato un glottonimo, ovvero il nome di una lingua vera e propria (si pensi a quanto viene tramandato da Gellio nelle Noctes Atticae, XVII, 17, 1 in cui l’autore, nel parlare di Ennio, riferisce, appunto, che Q. Ennius tria corda habere sese dicebat, quod loqui Graece et Osce et Latine, ovvero che Ennio, in riferimento alle proprie origini e competenze linguistiche, diceva di avere tre anime perché sapeva parlare il greco, l’osco ed il latino; dunque, indirettamente, Ennio dichiarava di essere partecipe di tre mondi diversi che tra loro, in vario modo, si intrecciavano), ma definire esattamente cosa sia linguisticamente l’osco presenta dei problemi connessi, in primo luogo, con la definizione di “italico” dal momento che la lingua osca è una lingua italica, ovvero, una lingua appartenente a quel gruppo linguistico comunemente definito “italico”. Da ciò consegue, dunque, che per definire in modo preciso cosa si intenda per osco, è indispensabile comprendere prima cosa sia l’italico e, successivamente, che tipo di rapporti intercorrano tra esso e la lingua osca.
CONCETTO DI ITALICO
Riguardo alla questione su cosa debba definirsi per ‘italico’, un minimo di riferimento storico ci sembra opportuno per cui va detto che tale termine nasce a fine ‘800 all’interno della scuola tedesca in una prospettiva genealogica che induce i suoi seguaci a considerarlo come un ramo dell’indoeuropeo.
CONCETTO DI ITALICO STRICTO SENSU
A tale identificazione, si oppone, però, la scuola italiana rappresentata da Devoto e da Pisani che, invece, preferiscono intendere per ‘italico’ ciò che si è formato all’interno della penisola e che, per i due studiosi, coincide, in buona sostanza, con il sabellico. Siamo, dunque, dinanzi ad una concezione di ‘italico stricto sensu’ da cui consegue che eventuali affinità con altre lingue della penisola, quali ad esempio il latino, non risalgono ad una ipotetica parentela originaria, ma sono piuttosto il frutto di contatti successivi. Sulla stessa linea, ma con ulteriori precisazioni, si colloca anche D. Silvestri nel momento in cui lo studioso osserva che il termine ‘italico’ “è, a ben vedere, un concetto più politico (guerra sociale) che linguistico, ma è proprio l’evidenza linguistica che consiglia di riassumere, faute de mieux, sotto questa documentazione unica, l’osco, l’umbro, il sudpiceno (quest’ultimo più affine all’umbro) ed alcune tradizioni minori, impropriamente definite ‘dialetti’ nella prassi manualistica, inquadrabili nei territori dei Peligni, dei Vestini, dei Marrucini, dei Marsi, dei Volsci e, forse, degli Equi e per le quali si potrebbe complessivamente parlare di ‘area linguistica medio-italica’”.
ITALICO COMUNE
Ma D. Silvestri specifica anche che, al di là di questo ‘italico stricto sensu’ è sicuramente esistito un ‘italico comune’ che potrebbe intendersi non come una lingua preistorica in larga misura ricostruibile, bensì come un insieme di fatti linguistici predocumentari caratterizzati da un indubbio livello di coesione, in estrema analisi frutto di convergenze preistoriche e protostoriche di cui è testimone il fatto che in esso si trovano alcune leggi fonetiche che non sono tuttavia esclusive dell’italico stricto sensu, ma che coinvolgono anche la tradizione latino-falisca secondo una cronologia indubbiamente alta.
DEFINIZIONE DI OSCO
Sulla base di quanto appena detto e soprattutto sulla base della definizione di ‘italico stricto sensu’, possiamo certamente dire che l’osco, sebbene sia, nella dicitura comune, spesso legato all’umbro (si pensi alla ormai datata dicitura di ‘osco-umbro’, quale sinonimo di ‘italico stricto sensu’ diverso dal latino che, però, è oggi poco usata sia per la sua inadeguatezza nell’esprimere fenomeni più complessi che per la sua improprietà concettuale dal momento che potrebbe ingenerare l’equivoco che le due lingue, osco ed umbro, siano quasi equivalenti) si connota per essere una variante dell’italico sviluppatasi, probabilmente, a seguito di fenomeni aggregativi originatisi tra il V ed il IV secolo a. C. e che presenta delle differenze, seppur lievi, rispetto all’umbro. Tale processo aggregativo, che le testimonianze epigrafiche fanno risalire almeno alla prima metà del IV secolo a. C., dovette, in realtà, essere un fenomeno originatosi precedentemente a seguito della cooccorrenza di diversi fattori, primo fra tutti la volontà di autorappresentazione etnica, e generatosi all’interno di un contesto multietnico. L’osco è, dunque, una lingua frutto di un fenomeno di koiné che nasce da una progressiva omologazione linguistica di varie tradizioni autonome dell’Italia centro-meridionale (esclusa la zona a sud di Foggia).
La testimonianza più forte di tale fenomeno aggregativo è rappresentata, a livello grafico, dal fatto che, per veicolare questa unica lingua, nelle diverse aree geografiche dell’Italia centro-meridionale coinvolte da questo processo di aggregazione vengono usati principalmente due diversi sistemi grafici, uno a base etrusca ed uno a base greca, che riprendono e continuano, dopo averle riadattate alla lingua osca, tradizioni scrittorie precedenti per cui nell’area in cui prevaleva la cultura etrusca (per lo più la Campania e zone limitrofe) si sviluppa l’alfabeto osco a base etrusca, mentre in quella in cui prevaleva la cultura greca (Calabria, Basilicata, parte meridionale della provincia di Salerno e parte della provincia di Messina) si sviluppa l’alfabeto osco a base greca.
CARATTERI FONETICI E MORFOLOGICI DELL’OSCO
In quanto lingua italica l’osco presenta:
- un sistema vocalico a 7 elementi (a, e [ε], o [É”], í [e], ú [o], i, u);
- una dominanza timbrica di [i] ed [u] rispetto ad [e] ed [o];
- le sonore b, g e d, ma non ha le aspirate φ = phi, χ = chi e θ = theta;
- una cospicua tendenza all’innovazione analogica;
- sincopi che riguardano le sillabe immediatamente successive all’accento secondo due distinte fenomenologie (di cui la prima prevede accento sulla penultima ed apocope nella sillaba finale, mentre la seconda, legata all’accento protosillabico, concerne esclusivamente le vocali di sillabe mediane);
- la forma in –eis rappresentante, indubbiamente, un genitivo italico attestato prioritariamente nei testi più tardi;
- una tendenza alla palatalizzazione di u fino all’esito i;
- la velarizzazione delle vocali lunghe finali in sillaba aperta;
- l’assenza, se non in casi eccezionali, della geminatio vocalium al di fuori della prima sillaba ovvero al di fuori di sillabe toniche (il che conferma l’importanza dell’accento protosillabico anche per anaptissi e sincopi);
- un accento protosillabico in ogni caso dinamico con vocale lunga in sillaba iniziale;
- una tendenza all’assimilazione del gruppo –nd- in -nn- (-nd- > -nn-;
- il passaggio da –mb- a -m- (–mb- > -m-);
- una tendenza alla palatalizzazione per effetto di –j- seguente (es. –l- > -ll-, -r- > -rr-, -t- > -s-, -d- > -z-, -k- > -x-);
- il passaggio da –tl- a -kl- (–tl- > -kl-) all’interno di parola;
- la sonorizzazione della –s- intervocalica;
- l’esito f indifferenziato (ovvero sia in sillaba interno che iniziale) della sonora aspirata indoeuropea (bh, dh, gh);
- la tripartizione del genere in maschile, femminile e neutro con due numeri (singolare e plurale);
- sostantivi appartenenti al tema in -Ä, in –jo;
- la tendenza a privilegiare la sequenza –s al posto di –ss in sede finale;
- l’assenza della monottongazione (a differenza dell’umbro);
- la presenza dell’anaptissi (a differenza dell’umbro);
- la presenza della diatesi attiva e passiva;
- il rafforzamento del sistema dei casi (a differenza dell’umbro) rappresentato da nominativo, genitivo, dativo, accusativo, ablativo e locativo;
- il livellamento sui temi in –i del dativo plurale dei temi consonantici.